Sera. Svariati chilometri a sud di Foca.
Un cielo stellato perfetto.
La via Lattea sembra uno squarcio di luce nel buio.
Il mare è immobile, pietrificato.
Penso che ingoieremo l’ancora per un paio di giorni in questo posto, giusto per stingere qualche vite e oliare il nostro vecchio Ferro.
Il Vostok ci ha portati fino qui, e qui abbiamo deciso di far riposare le sue gomme stanche.
Siamo in un campeggio a conduzione famigliare.
La spiaggia non ha nome e neanche il campeggio che ci ospita ne ha uno.
Intorno a noi solo turchi.
Non sembra un campeggio.
Sembra un accampamento rom.
È un posto molto ordinato e tutto ha un senso nell’anarchia che regna sovrana.
Intorno a noi al massimo 20 roulotte che ormai hanno messo le radici e si sono trasformate in baracche, appartamenti, casette di villeggiatura.
C’è chi ci ha piantato un orticello intorno alla propria roulotte, chi ci ha addossato tanto di quel legno ,da averla ricoperta completamente, chi ci ha messo dei divani, trasformando lo spicchio di spiaggia che occupa nel salotto della propria abitazione.
Siamo in un circo Barnum della villeggiatura low cost turca.
La piazzola, compresa di acqua di pozzo e corrente elettrica costa circa sette euro al giorno.
E basta.
Non ci sono costi extra, non c’è animazione, discoteche, bar.
Nulla.
Solo una grande balera su cui i proprietari hanno sistemato sedie e tavolini ricreando un ristorante.
E poi una casupola di cemento in cui la vecchia proprietaria, una signora simpaticissima con cui ci capiamo a gesti e disegni su un block notes ingiallito, sparisce ogni volta che le chiedi qualcosa ritornando sempre con quello che cerchi.
La casupola è il suo cilindro magico, il suo antro fatato.
È uno di quei posti in cui la comunicazione diventa l’ultimo dei problemi.
Un posto in cui ti ritrovi a conversare con qualcuno per ore e poi quando lo saluti ti chiedi in che lingua tu abbia conversato per tutto il tempo.
Un avamposto di Babele, una zona franca per liberi pensatori, un dimenticatoio umano.
Così isolato e così nascosto.
Uno di quei posti in cui puoi passare una vita intera senza che nessuno ti chieda documenti o chi tu sia veramente.
Trovato per caso, o per intercessione del nostro Dio del viaggio.
Quello che ci voleva per fermarsi un paio di giorni.
Oggi il Vostok ha divorato un bel pezzo di strada.
Tutta intera, senza fare storie.
Unica sosta: Pergamo.
Le strade turche sono una fiera campionaria di umanità.
Ai bordi delle strade puoi incontrare chiunque.
Contadini, operai, bambini, una miriade di bambini, donne che trasportano qualcosa sulla testa e tantissimi chioschetti di frutta, camion in panne, autobus in sosta, carretti carichi di ferraglia o di letame.
Ma le auto abbandonate sono la costante.
Non si ha idea di quante auto abbandonate ci siano ai lati delle strade turche.
C’è anche da dire che molte delle auto in circolazione meriterebbero la rottamazione e invece continuano a comminare.
Ma le auto abbandonate ai bordi delle strade turche sono un curioso fenomeno.
Spesso non sono auto incidentate, ma semplicemente auto vecchie, obsolete, arrugginite e lasciate lì.
Auto con i vetri sfondati, auto sui mattoni, auto le cui ruote sono diventate fioriere, auto in condizioni apparentemente buone ma con il fondo inesistente, auto senza motore, auto senza sedili, auto in cui gli uccelli ci hanno fatto i nidi.
Come vecchi pescherecci lasciati alla fonda in attesa che si arrendano al tempo.
Auto solitarie, smarrite, lasciate al loro destino.
Forse le leggi turche sulla rottamazione non sono molto chiare.
Questa è una spiegazione logica.
Ma perché abbandonarle a bordo strada?
Forse per rispetto nei loro confronti.
Come anziani sulla sedia a rotelle che da dietro la finestra scrutano il mondo, le auto abbandonate scrutano la strada e i loro padroni preferiscono lasciarle lì invece che da uno sfasciacarrozze o in un garage buio.
Una forma di rispetto.
Ma anche di solitudine apparente, quella solitudine di chi non è solo ma si guarda intorno e cerca di capire.
Ecco forse oggi il concetto che mi viene in mente è quello della solitudine.
Il campeggio anarchico, in cui puoi sparire dal mondo, la solitudine delle auto ai bordi della strada e poi c’è l’albero solitario di Pergamo che chiude il cerchio.
Siamo stati sull’Acropoli di quella che fu definita la seconda Atene, una delle più grandi e importanti città dell’Asia minore.
Colonne, capitelli, un teatro di tutto rispetto, statue e tutto quello che si può trovare in un sito archeologico del genere.
Ma oggi non mi va di parlare di archeologia.
Quello che mi ha intenerito è stato un alberello solitario nel bel mezzo dell’Acropoli di Pergamo.
Un sole cocente, centinaia di turisti tutt’intorno, decine di lingue che si intrecciano nei racconti a cantilena delle guide, secoli di storia a quintali in ogni pezzo di marmo e lui lì.
Un ulivo con le radici strette al fondo roccioso dell’Acropoli, a danzare ad ogni alito di vento e a fare ombra a chiunque ne abbia bisogno.
La solitudine nel senso più bello del termine.
La solitudine migliore, quella che ti rende invisibile, che porta in sé il rispetto degli altri, che ti fa parlare con gli altri senza che sia importante sapere chi siano gli altri o chi tu sia.
E un ho pensato alla solitudine del viaggiatore: che ti fa nascondere in un posto di gente simile a te eppure diversa, lontano da casa e farti sentire nel tuo letto, che ti fa restare a bordo strada e guardare il mondo con occhi diversi e che ti permette di dare ristoro, di fare ombra a chi te lo chiede, se vuole, ascoltando i tuoi racconti.
Buonanotte.
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